diValerio Cappelli
Oggi alla Mostra di Venezia Queer, uno dei film italiani più attesi. Il regista ricorda al Corriere i suoi esordi col Super 8 e un aneddoto di quando aveva 20 anni:«In una Galleria di Napoli mi sedetti su un'opera di Anselm Kiefer e la ruppi. Scappai dalla Galleria come Fantozzi».
DAL NOSTRO INVIATO
VENEZIA - Queer è il film di Luca Guadagnino, il più ambizioso e forse atteso tra gli italiani in gara alla Mostra, sospeso tra realtà e allucinazioni, il più audace. Ma guai a dirgli scandaloso, come fa il daily (il quotidiano del festival): «A parte che è una parola che non mi piace e non mi corrisponde. Lo scandalo ha a che fare con qualcosa che irrompe in un universo di cui si vuol far parte. Io sono me stesso, a prescindere da quello che gli altri si aspettano». Ci sono scene di sesso estremo tra Daniel Craig, nel ruolo di William Lee, e Drew Starkey, come Eugene Allerton.
Daniel, lei, ex 007 al servizio di Sua Maestà, il simbolo della mascolinità, cosa ci fa sotto le lenzuola con un giovane di bell’aspetto? L’attore non fa una piega e dice: «Non posso controllare le reazioni dei fan di James Bond, mi era già capitato circa 25 anni fa un ruolo gay, in Love is The Devil di John Mayburry sulla vita del pittore Francis Bacon, faccio film da tanto tempo e di questo sono particolarmente orgoglioso. E’ una storia d’amore, di passione, di desiderio e di sentimenti perduti». Ecco Luca su Daniel: «L’ho sempre amato come attore, dai tempi di Love is the Devil, è un’icona totale che cerca di scoprire sempre cose nuove. Abbiamo parlato tanto della fragilità e del candore di William Lee».
Il film è tratto dal romanzo semiautobiografico di William S. Burroughs, uno dei padri della Beat Generation, all’epoca censurato, pubblicato soltanto 35 anni dopo. Ed è un vecchio pallino, se non una dolce ossessione di Luca Guadagnino, per l’undicesima volta a Venezia:«Ho pensato a Burroughs e l’ho parafrasato per tutta la mia vita». Nel 1950, un americano sui quaranta è espatriato a Città del Messico. Un tipo piuttosto solitario, vestito di bianco, con la pistola nella cinta, dipendente dagli oppiacei, frequenta locali gay piuttosto malconci. Un giorno incontra uno studente appena arrivato in città. Luca, cosa cerca il suo protagonista? «Cerca il modo in cui può esistere con la sua solitudine, quando incontra la solitudine di un’altra persona».
C’è una disperata vitalità dentro una cornice da realismo magico, scene che sembrano quadri di Hopper, un viaggio picaresco in Sudamerica, spiritismo e sciamanesimo nella giungla amazzonica. I due sono in cerca dell’ayahuasca, una pianta che incoraggia la telepatia e forse il controllo del pensiero, dagli effetti psicoattivi stupefacenti. Hollywood avrebbe avuto il coraggio di fare un film così? «Hollywood non è un indirizzo, Hollywood è contaminazione, è un diffuso senso di immaginazione in un mondo immaginifico, non è chiusa tra quattro mura. Questo film è hollywoodiano nel senso di una profonda italianità e internazionalità, ci sono Fremantle, io, Lucky Red che lo distribuirà in Italia».
Luca Guadagnino ha tante diverse radici e geografie, 53 anni, regista cosmopolita e solitario, amico fraterno di Tilda Swinton passata ieri al Lido, pallida e irregolare come lui, accompagna le sue riflessioni argute e colte con i suoi occhi roteanti. Gira in inglese, con attori stranieri. Archiviato il tempo in cui i suoi film in Italia venivano accolti col sopracciglio alzato da una parte dell’establishment, troppo estetizzanti,troppa forma, troppo borghesi,«come se la borghesia non facesse parte della storia del cinema italiano».
Lui non ragiona in termini di rivincita, non ci pensa proprio a riandare alle polemiche di quando, a Venezia, dopo A Bigger Splash, diceva che il suo paese non lo capisce. Eppure con l’Italia ha un legame viscerale. Luca, ricorda i suoi primi passi, quando ruppe un’opera d’arte di Anselm Kiefer, il grande pittore e scultore tedesco?Fa un salto sulla sedia: «Dove l’hai scovata questa cosa? Come posso dimenticarlo… Avrò avuto 20 anni, avevo fatto qualche Super 8, ero appena arrivato a Roma e mi proposero di andare a Napoli per i vent’anni della storica Galleria d’arte di Lia Rumma, che organizzava una retrospettiva su Kiefer. Mi sedetti su un frammento di una sua opera, dove campeggia un aeroplano. Mi sembrava solido, lo pensavo in ferro. Invece aveva usato il piombo, che sotto il mio peso si piegò. Scappai dalla Galleria come Fantozzi. Non ho mai avuto il coraggio di confessarlo a Lia Rumma, la vestale dell’arte contemporanea che fece conoscere l’arte povera in Italia. Lo scoprirà ora»
E a lei, Luca chi ha insegnato a volare, Laura Betti, l’intellettuale amica del cuore di Pasolini nella cui casa preparava piatti barocchi di cui lei andava pazza, carichi di mortadella tritata e chili di patate? «No, Laura mi ha insegnato a essere rabbiosamente rigoroso nel fare e nel pensare. Direi che io ho insegnato a me stesso». Pensavamo che dicesse Bertolucci, il suo mentore. «No, lui mi ha insegnato a guardare».
Nato in Sicilia, a un mese di vita la sua famiglia si trasferì in Etiopia, il padre insegnava italiano e storia, la mamma algerina. E la scena primaria, quella che ha forgiato il suo inconscio, il suo primo grande schermo, è stata la vastità del cielo. A Palermo tornò da teenager e scoprì la sensualità, mentre a Roma, più tardi, il cinema. In che fase artistica è della sua vita? «Febbrile. Ho appena finito un altro film. Vorrei essere più riflessivo. Ma è anche bello essere sempre in movimento».
3 settembre 2024 ( modifica il 3 settembre 2024 | 18:27)
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